IL RIMBORSO DEI COSTI DI GESTIONE DELLE PIATTAFORME DI E-PROCUREMENT SECONDO ANAC È SEMPRE ILLEGITTIMO
Con il parere n. 44206 del 3/6/2019, in risposta al quesito interpretativo sollevato da ANCE il 17 aprile u.s., l’ANAC ha confermato la completa illegittimità della prassi di inserire, nei bandi di gara, un’apposita clausola in forza della quale è previsto che l’aggiudicatario debba vincolarsi a rimborsare alle Centrali di committenza una somma determinata in misura percentuale (usualmente, pari all’1%) dell’importo posto a base di gara, quale remunerazione per la gestione delle procedure di gara svolte su piattaforme di e-procurement.
Il quesito giuridico inoltrato da ANCE lo scorso aprile riguardava un bando per l’appalto di lavori – caratterizzato proprio dalla citata clausola – indetto da un Comune. Quest’ultimo aveva demandato l’espletamento della relativa procedura ad ASMEL, da svolgere tramite la piattaforma telematica di negoziazione da quest’ultima gestita, Asmecomm.
In generale, la posizione di ANCE sulla non spettanza di tale onere economico è stata, fin dal principio, condivisa dall’ANAC. La stessa ha presentato un atto di segnalazione al Governo (n. 3/2015). Da qui, il legislatore ha voluto introdurre (con il decreto correttivo, d.lgs. n. 56/2017) l’apposito divieto nel Codice Appalti (art. 41, comma 2 bis del Codice).
Ciononostante, a causa del reiterarsi di episodi non in linea con la normativa ora richiamata, come evidenziato dalle segnalazioni del territorio, l’ANCE ha formulato ad ANAC la citata richiesta di parere, allo scopo di confermare l’illegittimità del divieto di remunerazione, comprensivo di qualsiasi tipologia di spesa relativa al funzionamento e all’utilizzo delle piattaforme di e-procurement.
Con il parere in commento, l’ANAC ha accolto “in toto” le istanze di ANCE, riscontrando l’assenza di disposizioni di rango legislativo che consentano di introdurre meccanismi di remunerazione a carico dell’aggiudicatario, e la sussistenza, nel Codice dei contratti, di un divieto espresso in tal senso.
Infatti, ad avviso dell’Autorità, l’addebito in esame contrasta sia con il principio espresso dall’art. 23 della Costituzione – in base al quale “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” – sia con l’espresso divieto di cui all’art. 41, comma 2 bis, d.lgs. n. 50/2016 – il quale cristallinamente stabilisce che “È fatto divieto di porre a carico dei concorrenti, nonché dell’aggiudicatario, eventuali costi connessi alla gestione delle piattaforme” -.
Invero, ha rilevato l’ANAC, dal momento che la creazione di soggetti aggregatori della domanda di fabbisogno pubblico ha avuto lo scopo di garantire un risparmio di spesa alle Amministrazioni beneficiarie, “il relativo funzionamento non può determinare un aggravio di costi per gli operatori, i quali, peraltro, tenderebbero a traslarli sull’ente appaltante e, per esso, sulla collettività, offrendo minor ribassi in gara, al fine di compensare il probabile costo posto a loro carico”, qualora risultassero aggiudicatari.
Inoltre, per l’Autorità, tale onere economico si rivela “contrario allo spirito riformatore del sistema della centralizzazione degli acquisti” (richiamando, a tal fine, la recente deliberazione n. 1123/2018, già espressiva di tale assunto).
Da ciò viene fatto conseguire che, in assenza di disposizioni di rango primario (e di previsioni attuative di secondo livello), “a nessuna centrale di committenza è consentito porre a carico dell’aggiudicatario una qualsivoglia forma di remunerazione”.
Tutto ciò premesso, l’Autorità ha sottolineato anche che eventuali procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti che continuino a prevedere tale addebito possono essere segnalate anche agli Uffici di vigilanza dell’ANAC (secondo la procedura disciplinata dal Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici, pubblicato nella G.U. del 16 ottobre 2018).
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