APPALTI PUBBLICI- NUOVA RICHIESTA DI PRONUNCIAMENTO DELLA CORTE EUROPEA SULL’ESCLUSIONE PER GRAVE ILLECITO PROFESSIONALE
Con l’Ordinanza della Quinta sezione del Consiglio di Stato n. 5033, depositata lo scorso 23 agosto, arrivano a quattro le questioni poste ai giudici comunitari in merito all’interpretazione dell’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice, circa il grave illecito professionale.
Questa volta, l’occasione di interrogare la Corte di giustizia si è presentata nell’ambito di un giudizio in cui è venuta in esame l’esclusione di un concorrente da una gara disposta a seguito della decisione assunta dalla stessa stazione appaltante, nel corso del procedimento, di risolvere un precedente contratto per grave inadempimento: ragion per cui, è stato ritenuto che tale comportamento costituiva un’inadempienza che non garantiva il necessario rapporto fiduciario nelle attività negoziali con la Pubblica amministrazione.
Non essendo stata contestata in giudizio la risoluzione contrattuale, il giudice di primo grado ha respinto il ricorso; e ciò, sul presupposto che l’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice qualifica come escludenti i soli provvedimenti risolutivi che non siano contestati in giudizio o che siano stati confermati all’esito di un giudizio.
Il giudice d’appello non ha tuttavia ritenuto condivisibile l’assunto della decisione di primo grado, sul presupposto che l’impresa non aveva prestato acquiescenza al provvedimento di risoluzione. In questo senso, infatti, non solo non erano ancora decorsi i termini per la contestazione in giudizio, ma la richiesta di accesso agli atti e la predisposizione dello stesso atto di citazione – in corso di ultimazione – da parte dell’impresa manifestavano la sua volontà di non aderire al contenuto di tale provvedimento.
Dopo aver citato anche alcuni precedenti dello stesso Consiglio di Stato che si sono espressi in termini analoghi (Consiglio di Stato, sez. V, 27 aprile 2017, n. 1955 e 2 marzo 2018, n. 1299), i giudici di Palazzo Spada si sono così dedicati alla formulazione del quesito per la Corte Ue, con il quale hanno ribadito la mancanza di omogeneità tra la norma interna e quella comunitaria. Da un lato, infatti, l’articolo 57, paragrafo 4, della direttiva 2014/24/Ue consente di escludere un’impresa se la stazione appaltante è in condizione di dimostrare la sussistenza di un grave illecito professionale «anche prima che sia adottata una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori» (in questo senso, si esprime il Considerando 101), dall’altro lato, invece, l’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice ha stabilito che tale illecito non comporta l’esclusione in caso di contestazione in giudizio.
Tuttavia, la conseguenza di questa decisione normativa – rilevano ancora i giudici nazionali – è la necessaria subordinazione dell’azione amministrativa agli esiti del giudizio; e quindi, se da un lato la stazione appaltante sarà tenuta ad avviare una nuova procedura di gara a seguito della risoluzione contrattuale, dall’altro lato all’impresa sarà sufficiente contestare in giudizio il provvedimento per accedere comunque alla procedura bandita, dovendo l’amministrazione attendere l’esito del processo per poter legittimamente procedere alla sua esclusione. Ma, a questo punto, la parola passa alla Corte, la quale dovrà stabilire se sia comunitariamente compatibile una previsione che consente di escludere un’impresa solo se la risoluzione non è stata contestata o è stata confermata all’esito di un giudizio.
Le precedenti ordinanze di rimessione
Allo stato attuale, dinanzi alla Corte sono pendenti altre tre questioni pregiudiziali sull’interpretazione dell’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice.
In particolare, le prime due ordinanze di rimessione ai giudici Ue (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 3 dicembre 2017, n. 5893; Consiglio di Stato, sez. V, 3 maggio 2018, n. 2639) sono state formulate nell’ambito di controversie del tutto analoghe a quella recentemente sottoposta al Consiglio di Stato. Anche in questi casi, infatti, le imprese risultavano essere destinatarie di un provvedimento di risoluzione di un precedente contratto di appalto, che veniva contestato in un giudizio ancora pendente. Ma, in un caso, la stazione appaltante ha ritenuto di ammettere l’impresa, sulla base della mancata definitività dell’accertamento giudiziale; mentre, nell’altro caso, non è stata consentita la sua partecipazione, proprio a causa della pendenza del giudizio sull’episodio risolutivo.
Con una terza ordinanza (Tar Piemonte, Torino, sez. I, 21 giugno 2018, n. 770), è stato posto invece posto il problema della qualificazione di un illecito antitrust come errore professionale nell’esercizio dell’attività, ai sensi del previgente articolo 38, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163/2006 (confluito, seppur con profonde modifiche, nella generale ipotesi del grave illecito professionale). In questo caso, la questione pregiudiziale è stata sollevata dinanzi ad una aggiudicazione che è stata annullata per avere la stazione appaltante accertato che l’affidatario era stato colpito da una multa dell’Agcom di importo pari a 56 milioni di euro (confermata con sentenza passata in giudicato), avendo partecipato ad un’intesa restrittiva della concorrenza con diverse forme di condotta, tra cui accordi, scambi di informazione e pratiche concordate in senso stretto, al fine di condizionare gli esiti di una gara mediante l’eliminazione del confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti più appetibili; e quindi, partendo dal presupposto che, nella vigenza del precedente Codice, la giurisprudenza ha escluso i comportamenti antitrust dal perimetro del grave errore professionale, i giudici italiani sono tornati sul problema – anche alla luce della evoluzione della disciplina – chiedendo alla Corte se non sia maggiormente compatibile con il diritto dell’Unione consentire alle P.a. di valutare autonomamente tali violazioni.
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