DIFFERENZE TRA “RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO” E “RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA”
(CdS n.3505 del 14/07/2015)
Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
Affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell’edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente, atteso che anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA
FATTO e DIRITTO1. – L’ing. … assume d’esser proprietario d’un compendio immobiliare sito in Ro., tra il l.go delle Terme di Caracalla, il v.le omonimo ed il vicolo (omissis…) e censito al NCT fg. (omissis…), partt. nn. (omissis…), 157 e 251, da lui acquistate da terzi a più riprese nel corso del tempo.
L’ing. … dichiara altresì che, fin dagli anni ‘70, il conduttore del compendio, che svolgeva una attività di architettura di interni e di esterni e di tipo florovivaistico, realizzò sulle partt. n. (omissis…) e (omissis…) vari manufatti abusivi, perlopiù adibiti ad uffici e, rispettivamente, all’esposizione ed alla vendita di mobili ed arredi per giardino.
Per tali manufatti fu a suo tempo chiesto il condono edilizio ex l. 28 febbraio 1985 n. 47, prima del passaggio di proprietà all’ing.., cui nel 2000 furono rilasciate cinque concessioni edilizia in sanatoria, precedute dal nulla-osta paesaggistico dalla Soprintendenza per i bb.aa.aa. del Lazio. In particolare, le prime quattro concessioni (le nn. 246911, 246912, 246913 e 246914 del 10 novembre 2000) riguardarono i manufatti A) / D), ricadenti sulla part. n. (omissis…). Per quello insistente sulla part. n. (omissis…), di proprietà dell’ing. … fin dal 1971 e che ne chiese il condono, intervenne a sua volta la concessione in sanatoria n. 24372 del 26 ottobre 2000.
Il compendio de quo è stato poi locato dall’ing. … fin dal 19 marzo 2007 al Gruppo PROFIN s.r.l., corrente in Ro., che è stata autorizzata a presentare a Roma Capitale una DI., per effettuare il restauro ed il risanamento conservativo dei manufatti condonati, ai sensi dell’art. 22, commi 2 e 3 del DPR 6 giugno 2001 n. 380 e senza cambio di destinazione d’uso, né di sagoma, di altezza o di volumetria di essi.
2. – Presentata in effetti tale DI. il 23 febbraio 2009, in pari data l’arch. …, tecnico incaricato dal Gruppo PROFIN s.r.l., ha chiesto alla Soprintendenza per i beni archeologici di Roma il parere sull’intervento in questione.
La Soprintendenza, con nota prot. n. (omissis…) del 30 marzo 2009 e ritenendo tra l’altro che l’intervento stesso riguardasse pure altri manufatti allocati sulla part. n. (omissis…) ed ancora con condono non definito, ha chiesto al Gruppo PROFIN s.r.l. la produzione d’una nuova relazione paesaggistica ex DPCM 12 dicembre 2005. Tanto affinché detta Società poi la producesse tanto alla Soprintendenza stessa, quanto a quella per i bb.aa.aa. del Lazio, per consentire il rilascio del nulla-osta, e ciò quantunque la relativa documentazione fosse già allegata alla DIA. Sicché il 30 luglio 2009 l’arch…., dopo averle comunicato d’aver già chiesto il predetto parere alla Soprintendenza ai bb. archeol. di Roma, ha chiesto a Roma Capitale l’attivazione della conferenza di servizi, poi convocata presso il Dip.to IX (uff. tecn. 1) per il 24 novembre 2009. Con la nota n. 34360 del successivo giorno 30, la Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma ha comunicato a Roma Capitale che l’area d’intervento ricadeva in zona archeologica rilevante, nonché in zona T I/4 del PTP n. 15/12 (tutela integrale), oltre a sostanziarsi in una vera e propria ristrutturazione, ferma comunque l’illegittimità dei condoni a suo tempo rilasciati.
È seguita la nota prot. n. (omissis…) dell’8 marzo 2010, recante il parere da parte di Roma Capitale – Dip.to V, favorevole sì, ma con prescrizioni, tra cui l’acquisizione del parere della Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma, nonché limitatamente alla sola attività di risanamento conservativo e di restauro. È intervenuta anche la nota n. 6706 del 1º aprile 2010, con cui la Soprintendenza ai bb. aa. pp. per il Comune di Roma ha reso note a Roma Capitale, all’altra Soprintendenza ed alla Società istante alquante criticità sia sulla legittimazione di quest’ultima a realizzare l’intervento, sia sulla reale natura di questo (che appare più una demolizione con ricostruzione e frazionamento), sulle manchevolezze della relazione e della documentazione e sulle concessioni in sanatoria.
L’arch…., con la sua missiva del 28 giugno 2010, ha ritrasmesso la documentazione per la DI. e ha precisato che l’intervento de quo avrebbe riguardato i soli manufatti edilizi esistenti e già sanati fin dal 2000. Egli ha poi ulteriormente ragguagliato la Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma, con la missiva del 7 maggio 2010, trasmettendole ulteriori documenti. Poiché comunque la conferenza di servizi non era sta conclusa nonostante tutta la documentazione inviata, allora il Gruppo PROFIN s.r.l., con le missive del 22 ottobre e del 21 dicembre 2010, ha chiesto a tutte le Amministrazioni coinvolte la sollecita definizione di essa. Dal che l’invito diramato da Roma Capitale – Dip.to IX il 9 marzo 2011, affinché la predette Amministrazioni rendessero i loro pareri in vista della chiusura della conferenza che era stata indetta per il 24 novembre 2009.
3. – A seguito della diffida con contestuale istanza d’accesso presentata dalla Società istante, Roma Capitale – Dip.to IX ha diramato la nota n. 92188 del 5 dicembre 2011, facendo presente a tutte le predette Amministrazioni la necessità di concludere al più presto la conferenza di servizi de qua e di non aver ricevuto più alcuna loro comunicazione. In particolare, Roma Capitale ha reso noto che, in tal caso, si sarebbero dovuti ritenere acquisiti i pareri stessi, ai sensi dell’art. 14-ter, commi 6 e 7 della l. 7 agosto 1990 n. 241 e, quindi, «… conclusa la conferenza dei servizi con esito favorevole …», ma ha invitato la Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma, ove «… fosse al corrente di motivi ostativi all’esecuzione delle opere …», di darne immediata comunicazione.
È dunque intervenuta la nota n. 21238 del 19 dicembre 2011, con la quale la Soprintendenza per i bb. aa. pp. di Roma ha ribadito che le opere de quibus non erano suscettibili di sanatoria, stante il regime di tutela integrale per le aree ov’esse ricadono, per il resto ripetendo quanto detto con la nota n. 6706/2010. Con la nota n. 21239 di pari data, la medesima Soprintendenza ha reso noto a Roma Capitale – Uff. condono edil. d’aver chiesto al RUP, appunto con la nota n. 6706/2010, di chiarire «… le procedure che l’Amministrazione comunale aveva adottato per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria per le… opere site in area sottoposta a tutela paesaggistica con D.M. 10. 01. 1956 e ricadente nel PTP 15/12 in zona classificata a tutela integrale T I/4 …». La Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma, dal canto suo e con la nota n. 38736 del 20 dicembre 2011, ha: I) – richiamato quanto detto nella conferenza del 24 novembre 2009 e quanto chiarito con la sua nota n. 34360/2009; II) – contestato l’asserzione circa la sua assenza in quella seduta conferenziale; III) – affermato che le concessioni in sanatoria erano state rilasciate senza il parere della Soprintendenza ai bb. aa. pp., come già fatto presente con la propria nota n. 8894/2009 e con quella n. 21239/2011 di quest’ultima Soprintendenza.
Con nota n. 97659 del 22 dicembre 2011, Roma Capitale – Dip.to IX ha dichiarato chiusa, stavolta con esito negativo, la predetta conferenza di servizi, comunicando alla Società istante di non dar corso ai lavori indicati in DIA.
Con la nota n. 6542 del 27 gennaio 2012, Roma Capitale – Uff. condono edil. ha risposto alla nota soprintendentizia n. 21239/2011, precisando ad entrambe le Soprintendenze, alla Direz. region. del MIBAC ed alla Società istante che già nel 2009 aveva fatto presente qual fosse lo stato di pendenza di tutti i procedimenti di sanatoria inerenti al compendio immobiliare de quo.
4. – Avverso il citato verbale di chiusura, le soprintendentizie nn. 21238 e 21239/2011 e nn. 34360 / 2009 e 38736/2011, detta Società e l’ing. … sono insorti innanzi al TAR Lazio, con il ricorso n. 1811/2012 RG — articolato in un gravame introduttivo ed in un atto per motivi aggiunti—, con cui deducono vari profili di censura.
L’adito TAR, con sentenza n. 5209 del 27 maggio 2013, ha respinto la pretesa attorea, in quanto:
1) – le opere de quibus, oggetto dell’invocato restauro, non erano suscettibili di sanatoria;
2) – ai sensi dell’art. 42 del Dlg 22 gennaio 2004 n. 42, anche sulla particella relativa a tali manufatti il 14 marzo 2012 è stato imposto un vincolo archeologico diretto «… (oltre agli altri, paesaggistico e di PTP …), che conferma la non sanabilità dei manufatti già condonati e, quindi, la conformità a legge, ragionevolezza e proporzionalità… del provvedimento impugnato …»;
3) – l’insussistenza d’ogni disparità di trattamento con vicende similari.
Appellano quindi l’ing. … e consorte, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità della sentenza citata per: A) – l’insussistenza dei tre presupposti (condono rilasciato senza parere delle Soprintendenze; conseguente chiusura della conferenza di servizi con esito negativo per la non sanabilità delle opere allora abusivamente realizzate; apposizione d’un ulteriore vincolo diretto che conferma tal insanabilità) per il diniego dell’attività richiesta; B) – l’illogica valutazione tecnica della Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma n. 34360/2009 e non più sottoposta ad un’ulteriore verifica (ad onta delle successive acquisizioni documentali), che ha descritto i manufatti esistenti come «… baracche di tubi innocenti con lamiera …» non ristrutturabili a causa dell’elevata valenza archeologica dell’area «… ed alla conseguente incompatibilità di tal valenza con un utilizzo diverso da quello della sua preservazione …». Resistono in giudizio tutte le Amministrazioni intimate, che concludono per il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 9 giugno 2015, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.
5. – L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni di cui appresso
Quanto al primo motivo d’appello, anzitutto non può il Collegio non tener conto della circostanza che i manufatti restaurandi furono tutti condonati nel 2000 dall’allora Comune di Roma, con atti esistenti, efficaci e che finora non hanno mai formato oggetto d’autotutela dalla P.A. che allora li rilasciò. Né certo essi si potrebbero reputare nulli o, ma, al più, illegittimi, ove mai fossero stati emanati senza il prescritto nulla-osta dell’Autorità preposta all’unico vincolo diretto vigente a quel tempo, di tipo paesistico e stabilito dal DM 10 gennaio 1956 (Mura Aureliane). Ma così non è, ché tali condoni edilizi furono corredati dai pareri favorevoli dell’allora Soprintendenza per i bb. aa. pp. del Lazio in data 26 giugno 1987, non smentiti dalle articolazioni territoriali del MIBACT e senza che al tempo vi fossero vincoli archeologici diretti sull’area, come chiarito da Roma Capitale fin dal 2008. Sicché i condoni de quibus non possono esser disapplicate né da Roma Capitale, né da altre Amministrazioni e certo non con riguardo a vicende mai considerate, o per vincoli sopraggiunti (nel caso in esame, addirittura dopo la notificazione del ricorso al TAR) o, peggio, per un diverso avviso medio tempore maturato dalle Autorità preposte a questi ultimi.
Ciò posto ed assodato che allo stato i condoni edilizi non sono revocati in dubbio (onde i manufatti de quibus vanno considerati manufatti legittimati, notano poi le Soprintendenze intimate che l’area d’intervento, oltre val vincolo archeologico diretto, comunque soggiace al PTP n. 15/12 Valle della Ca., Ap. antica e Acquedotti ed alla relativa tutela integrale (Capo III delle NTA), stabilito dalla delibera del Consiglio regionale del Lazio n. 70 del 10 febbraio 2010.
Questo dato è vero, tant’è che l’appellante Gruppo PROFIN s.r.l., su autorizzazione del proprietario ing. …, a suo tempo presentò la DI. con contestuale richiesta di nulla-osta e la Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma le chiese un’integrazione documentale paesaggistica, anche ai fini del coinvolgimento dell’altra Soprintendenza, quella ai bb. aa. pp. Nondimeno, nota il Collegio che la disciplina della tutela integrale s’armonizza con quanto recato dall’art. 60 delle NTA al PTP, ossia con le regole sugli interventi da realizzare sui manufatti esistenti e legittimati e sul trattamento di quelli adibiti o da adibire a servizi. Al contempo, il precedente art. 12, quando siffatti interventi sui fabbricati esistenti coinvolgono aree a tutela archeologica — cui il Capo III sulla tutela integrale fa riferimento—, sono ammessi, tra gli altri colà elencati, pure gli interventi di restauro, nonché di risanamento conservativo. Così è definito quello dedotto dagli appellanti in DI., poiché si tratta, in base al progetto allegato alla DI. ed allo stato degli atti, se non di recuperare i manufatti condonati, molto e da lungo tempo degradati, attraverso la progressiva sostituzione delle parti ammalorate e l’adeguamento sistematico dei servizi, a quanto consta senza modifiche di sagoma e volumetria e senza cambio di destinazione d’uso.
Non è allora chi non veda come, perlomeno secondo tal descrizione ed in assenza d’un nuovo e/o diverso accertamento da parte delle Amministrazioni intimate sul punto, la vicenda in esame ben s’inquadri tra i casi di restauro e di risanamento conservativo, di cui all’art. 3, c. 1, lett. c) del DPR 380/2001.
Si tratta, per vero, di un’attività rivolta «… a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili …». Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «… il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso …», l’eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente, come hanno adombrano le Soprintendenze, di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia. Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio e nell’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 17 marzo 2014 n. 1326; id., 17 luglio 2014 n. 3796; id., 5 settembre 2014 n. 4253). Di recente la Sezione (cfr. Cons. St., IV., 25 luglio 2013 n. 3968) ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall’art. 31 della l. 5 agosto 1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio) che rispettino gli elementi fondamentali dell’organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni d’uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia risiede essenzialmente nella conservazione
formale e funzionale dell’organismo edilizio, che connota i primi rispetto alla seconda. In assenza, allora, di dati sicuramente concludenti per descrivere l’intervento come ristrutturazione, l’assunto delle Soprintendenti intimate al riguardo è nulla più che un’imprecisa valutazione. Tanto perché nel progetto manca, per com’è redatto, quell’effetto di definitiva ed irreversibile trasformazione dei manufatti originari in altri di diverse natura e funzione d’uso, ogni eventuale abuso delle appellanti in sede esecutiva afferendo alla fase della vigilanza edilizia.
Viceversa, nessun pregio ha la deduzione degli appellanti, ad avviso del Collegio superflua rispetto all’espunzione di ogni assunto erroneo delle Amministrazioni resistenti dalla fattispecie, secondo la quale Roma Capitale avrebbe dapprima chiuso la conferenza di servizi con esito a loro favorevole e poi, dopo i (pretesi tardivi) pareri negativi delle Soprintendenze, l’avrebbe riaperta per concluderla con una statuizione di segno opposto. Dalla serena lettura della nota comunale del 5 dicembre 2011 ben evincesi che, non essendo pervenuti i pareri delle Soprintendenze stesse, li si sarebbero dovuti ritenere acquisiti ai sensi dell’art. 14-ter, commi 6 e 7 della l. 241/1990. Ma Roma Capitale, ben lungi dal definire alcunché in quel contesto, nonostante i poteri che le sarebbero spettati quale P.A. procedente ed indicente la conferenza di servizi, ha invece invitato la Soprintendenza per i bb. archeol. di Roma, ove «… fosse al corrente di motivi ostativi all’esecuzione delle opere …», di darne immediata comunicazione. Come si vede, nessuna conclusione è stata raggiunta a quella data ed il riferimento di Roma Capitale all’eventuale esito favorevole della conferenza de qua è stata differita fino all’acquisizione dei pareri delle due Soprintendenze coinvolte: tutto qui.
6. – In definitiva, l’appello va accolto nei sensi fin qui visti e con salvezza dell’ulteriore attività di riemanazione. Le spese del doppio grado di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e son liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. IV.), definitivamente pronunciando sull’appello (ricorso n. 6124/2013 RG in epigrafe), lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado per quanto di ragione e nei sensi di cui in motivazione, con salvezza dell’ulteriore attività di riemanazione.
Condanna le Amministrazioni resistenti, in parti uguali tra loro, al pagamento, a favore degli appellanti, delle spese del doppio grado di giudizio, che sono nel complesso liquidate in € 4.000,00 (Euro quattromila/00), oltre IVA, CPA ed accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
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